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L’appello dell’Unesco: “Vietare gli smartphone nelle scuole”


Un Paese su quattro nel mondo vieta l’uso di smartphone in classe. E, secondo un report dell’Unesco appena pubblicato, è giusto. Anzi, per citare il Global Education Monitoring Report, “i dati sull’impatto di computer e dispositivi elettronici sono contrastanti. I costi a breve e a lungo termine dell’uso del digitale sembrano essere notevolmente sottovalutati”. Non si parla dunque solo di smartphone, nelle 434 pagine del documento: nella premessa si legge infatti che è importante “imparare a vivere sia con che senza la tecnologia digitale; di prendere ciò che è necessario da un’abbondanza di informazioni, ma di ignorare ciò che non è necessario; di lasciare che la tecnologia supporti, ma mai sostituisca, il legame umano su cui si basano l’insegnamento e l’apprendimento. L’attenzione deve essere rivolta ai risultati dell’apprendimento, non agli input digitali”. E si sottolinea come, per contribuire a migliorare l’apprendimento, la tecnologia digitale non debba “sostituire ma integrare l’interazione diretta con gli insegnanti”.

Vantaggi e svantaggi

Da una parte, nota l’Unesco, la tecnologia digitale ha notevolmente aumentato l’accesso alle risorse per l’insegnamento e l’apprendimento, specie nei Paesi meno sviluppati: è il caso della National Academic Digital Library in Ethiopia, ad esempio, o della National Digital Library in India, ma pure del portale nazionale degli insegnanti in Bangladesh, che ha oltre 600.000 utenti. 

“Alcune tecnologie didattiche possono migliorare certi tipi di apprendimento in determinati contesti, come la matematica”, secondo il rapporto. Che insiste molto anche sulla possibilità di utilizzare computer e altri dispositivi digitali per non lasciare nessuno indietro: né chi è svantaggiato per ragioni fisiche o mentali, né chi vive in zone dove non esistono scuole o è comunque difficile accedere a determinati livelli di istruzione. Qui lo smartphone può giocare un ruolo primario, visto che nelle fasce più povere della popolazione si rinuncia semmai alla televisione ma non al telefonino. Questo però vuol dire che chi lo possiede è in grado potenzialmente di accedere a internet e può sfruttare una comunicazione bidirezionale con altre persone, inclusi appunto insegnanti ed educatori. 

Così in Cina lezioni video di alta qualità fornite a 100 milioni di studenti nelle zone rurali hanno migliorato i loro risultati del 32% e ridotto del 38% il divario tra i salari nelle città e nelle campagne. Ma i risultati non sono sempre positivi: in Perù il governo ha distribuito oltre un milione di laptop agli studenti, ma non ha previsto un modo efficace per integrali nella didattica, e l’iniziativa One Laptop Per Child non ha portato miglioramenti significativi nell’apprendimento. Negli Stati Uniti, l’analisi di più di 2 milioni di studenti ha rilevato che le differenze nell’apprendimento sono aumentate quando – come durante il lockdown per la pandemia – le lezioni si svolgono solo da remoto. 

Ancora: i contenuti disponibili online sono prodotti da gruppi dominanti, con scarsa o nulla rappresentanza delle minoranze di ogni tipo. Quasi il 90% del materiale didattico disponibile su piattaforme aperte di istruzione superiore è stato creato in Europa e Nord America; Il 92% dei contenuti della biblioteca globale di OER Commons è in inglese. I corsi online aperti di massa (MOOC, Massive Online Open Course) avvantaggiano gli studenti istruiti e quelli dei Paesi più ricchi. Dove però “solo il 10% circa degli studenti di 15 anni ha utilizzato dispositivi digitali per più di un’ora alla settimana nelle materie STEM”. Questo anche perché “solo la metà dei Paesi dispone di standard per lo sviluppo delle competenze digitali degli insegnanti”.

L’ingerenza dei colossi tech

Mettersi al passo non è facile: “Il costo del passaggio all’apprendimento digitale di base nei Paesi a basso reddito e della connessione di tutte le scuole a Internet nei paesi a reddito medio-basso aggiungerebbe il 50% al loro deficit attuale”, si legge nel rapporto. “Il denaro non è sempre ben speso: circa due terzi delle licenze software per l’istruzione negli Stati Uniti sono rimaste inutilizzate”. Senza contare poi la presenza sempre più invasiva di aziende private nelle strutture pubbliche destinate all’istruzione e alla didattica. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, “il ruolo degli interessi commerciali e privati nell’educazione continua a crescere, con tutte le ambiguità che ciò comporta”. Oltre 220 milioni di studenti hanno frequentato corsi online nel 2021, ma le piattaforme digitali sfidano università e istituzioni e pongono sfide normative ed etiche, ad esempio con abbonamenti esclusivi e l’utilizzo riservato dei dati degli studenti e del personale. Oggi, solo un Paese su sette garantisce legalmente la privacy dei dati personali legati all’educazione. E il 54% dei Paesi analizzati nel report (circa 200) ha stabilito degli standard di competenze digitali, ma spesso a definirli sono stati proprio le multinazionali del settore tech.
E infine, ma non certo ultimo, l’impatto ambientale: “Una stima delle emissioni di CO2 che potrebbero essere risparmiate estendendo di un anno la durata di tutti i laptop nell’Unione europea ha rilevato che sarebbe equivalente a togliere dalle strade quasi un milione di automobili”.

Così l’appello a non usare smartphone in classe, pur se comprensibile, non sembra nemmeno l’aspetto più preoccupante del documento Unesco. “I dati di valutazione internazionale su larga scala, come quelli forniti dal Programma per la valutazione internazionale degli studenti (PISA), suggeriscono un legame negativo tra l’uso eccessivo delle tecnologie e il rendimento degli studenti. È stato riscontrato che la semplice vicinanza a un dispositivo mobile distrae gli studenti e ha un impatto negativo sull’apprendimento in 14 Paesi”. L’Unesco cita la Cina, che ha stabilito limiti per l’uso di dispositivi digitali come strumenti didattici, limitandoli al 30% del tempo di insegnamento, con pause regolari lontano dallo schermo.

In Italia

Più vicino a noi, la Francia, che ha introdotto il veto nel 2018, e i Paesi Bassi, che avvieranno restrizioni dal 2024. Nel Regno Unito, l’ex segretario all’istruzione Gavin Williamson ha chiesto di bandire smartphone e tablet dalle scuole nel 2021, ma la sua proposta è stata bocciata dai sindacati. In Italia Il 20 dicembre scorso, una circolare del ministero dell’Istruzione ha vietato l’utilizzo di dispositivi elettronici nelle aule scolastiche, eccetto che per fini didattici. All’epoca se ne parlò parecchio, più che altro per l’allegata indagine conoscitiva della VII commissione del Senato, dove venivano evidenziati i potenziali effetti negativi dell’uso eccessivo degli smartphone. La lista era lunga e varia: dipendenza, aggressività, insonnia, alienazione, scarso rendimento, memoria e dialettica indebolite, ma anche conseguenze a livello fisico, come miopia, diabete, ipertensione. 

In realtà Valditara aveva reiterato un divieto esistente dal 1998 e confermato già nel 2007 dall’allora ministro Fioroni del PD. Quindi niente giochini, video e musica, ma sì alle app didattiche e ai libri digitali. D’altra parte, anche Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco, nella prefazione alla ricerca avverte: “Bisogna garantire che la tecnologia sia al servizio dell’istruzione e non il contrario”.



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Written by bourbiza mohamed

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