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Dante Muratore: ho detto no a Elon Musk per creare un chip che aiuterà chi ha perso la vista “a riveder le stelle”


“Il mio sogno? Permettere a chi è cieco di rivedere il volto dei propri figli”. Dietro un sogno, un progetto rivoluzionario e una nuova tecnologia. Lui si chiama Dante Muratore, ha soli 34 anni e sta lavorando, in collaborazione con le università più forti del pianeta, a un microchip da impiantare nella retina. Per migliorare la vita di milioni di persone, affette da retinite pigmentosa e maculopatia degenerativa.

Ha detto “no, grazie” a Elon Musk in persona che gli ha telefonato dicendo: “posso assumerti?”. Voleva portarlo a Neuralink, sei mesi dopo il suo arrivo in Silicon Valley. Piedi per terra, nel cuore l’amore per la ricerca e l’insegnamento. Ingegnere elettronico, l’ambito in cui si muove è il Brain-computer interface. Oggi è professore di microelettronica alla Delft University of Technology, il più grande e antico Politecnico olandese. È supervisor di un gruppo che sta lavorando alla creazione di un chip che può essere impiantato nell’occhio, rispettando il codice naturale della retina, per interfacciarsi con il sistema nervoso. “L’occhio è la porta per il cervello. È più facile da studiare, è più facile accedervi”.

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Muratore è arrivato a Delft direttamente da Stanford nel 2020.  “Sto continuando il lavoro iniziato in California con il professor E. J. Chichilnisky. Siamo alla versione tre del chip, che ha due principali funzionalità: da un lato fa sensing della retina, ossia rileva le attività che si verificano all’interno, dall’altro la stimola in modo opportuno“.

Si parla di pochi anni. “Nei prossimi 4 anni, porteremo questi dispositivi su gli esseri umani per fare i primi test. Abbiamo risposto alla maggior parte delle domande scientifiche ora dobbiamo completare una parte di ingegneria molto complessa, che richiede tempo e soldi”. Ha ricevuto finanziamenti dagli Stati Uniti, l’Olanda e l’Unione Europea per la sua ricerca. Ha pubblicato su riviste scientifiche. Fatto test in vitro e sugli animali. E sta perseguendo l’obiettivo della sua vita: “Fare qualcosa di bello per il mondo”.

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Flashback. Nato a Buenos Aires, genitori argentini, nonni italiani, a 13 anni Muratore si trasferisce a Santhià, in provincia di Vercelli. Studia a Torino. Laurea magistrale in ingegneria elettronica. Erasmus di un anno in Irlanda. Qui conosce il professor Peter Kennedy che gli propone di fare un dottorato all’Università di Pavia.

“Il mio piano era di prendermi un gap year. Non sapevo che cosa volesse dire fare un dottorato”. Arrivato a Pavia come ricercatore nel dipartimento di microelettronica, si innamora del mondo accademico e della ricerca. “Fin dal primo giorno ho amato l’ambiente universitario. Pavia era un centro di eccellenza. In quegli anni, era la seconda Università al mondo come numero di pubblicazioni in microelettronica. Eppure mancavano i fondi e avevamo difficoltà a fare progetti più grandi”. Passano due anni, inizia a chiedersi come sarà il suo futuro. Lo vede ambizioso. Il professore Franco Maloberti gli dice di aver ricevuto una e-mail da Stanford per un posto da ricercatore su un progetto innovativo. Muratore fa un colloquio di un’ora al telefono con il professor Boris Murmann. “Gli ho chiesto: vorrei lavorare in un progetto importante, in cui c’è collaborazione in altre discipline scientifiche. Mi ha risposto che stavano costruendo una retina artificiale. E ha aggiunto: “Se arrivi domani, per me va bene”. Il 1 ottobre è già a Palo Altro. Con lui, c’è la moglie Claudia Preziosi, oggi 35 anni, altro cervello italiano nel mondo. Laurea a Parma, background in International Business and Development, consulente per diverse startup, grande esperienza nel mondo biotech (al momento Claudia tra i suoi clienti ha una startup americana che crea cellule staminali per il fegato, da usare in alternativa al trapianto).

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“Arrivato a Stanford, io che non sono capace nemmeno di mettermi un collirio da solo, mi sono appassionato a questo progetto. La retina è un tessuto con tre strati. In uno ci sono i fotorecettori, che prendono la luce e la trasformano in corrente.  In un altro ci sono gli interneuroni. E nell’ultimo strato ci sono le cellule gangliari retiniche (neuroni), che decodificano il segnale elettrico e, attraverso il nervo ottico, mandano messaggi in varie parti del cervello. I fotorecettori muoiono: per vecchiaia, per degenerazione naturale e per alcune malattia, come la maculopatia. Ma nonostante ciò, i neuroni che collegano la retina con il cervello restano vivi. Il nostro approccio non tocca i fotorecettori, ma utilizza un’interfaccia che parla direttamente con questi neuroni. Che sono di diversi tipi. Alcune cellule si attivano in risposta a un incremento della luminosità, mentre altre in risposta a un incremento dell’oscurità. Prima di iniziare a stimolarli, registriamo la loro attività per capire esattamente che tipo di neuroni sono e che cosa fanno”.

Poi, per farti capire meglio, usa una metafora. “È come in un’orchestra. Immagina di voler fare musica al massimo livello e hai a tua disposizione una serie di strumenti. Vuoi sapere quando suona il violino, quando il violincello, quando la chitarra. Ecco violino, violincello, chitarra sono i nostri neuroni. In laboratorio siamo riusciti a dire a ogni musicista che nota suonare e quando. Tutti i “musicisti” rispondono ai nostri comandi. Ora dobbiamo provare a farli suonare in un chip piccolino che sta dentro la retina, con un basso consumo di potenza”.

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Ci sono altri scienziati nel mondo che lavorano sull’occhio, ma Muratore e i suoi sono pionieri. “Siamo gli unici che cercano di attivare questi neuroni singolarmente, rispettando le loro specificità”. Nel suo gruppo ci sono dottorandi che lavorano sull’algoritmo, chi sul chip, chi sul sistema wireless, chi sugli occhiali dove verrà posizionata la telecamera.

“Stiamo procedendo bene e non c’è cosa più interessante per me. Abbiamo una vita sola e tanto vale che la passiamo lavorando su progetti importanti e con persone che ci piacciono. Il professore con cui ho iniziato questo progetto a Stanford oggi è un caro amico”.

Il campo di applicazione di questo chip è enorme.

Secondo alcune statistiche le persone che hanno maculopatia sono circa 200 milioni al mondo. “Non tutte sono in uno stadio così avanzato da aver bisogno della nostra tecnologia, ma la maculopatia in realtà è una malattia legata all’età. Se vivessimo all’infinito, tutti ne soffriremmo e diventeremmo tutti ciechi”.

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Ma ridarete la vista a chi non vede più?  “Il nostro obiettivo non è portare queste persone a vedere con dieci decimi ma aiutarli a riconoscere il volto dei propri figli. È un obiettivo molto sfidante. Ce la faremo? Sì. Ce la metteremo tutta. Ci vuole molta incoscienza o forse anche un po’ di arroganza che ti porta a dire: se non lo faccio io, non succederà. Poi ovviamente le cose non stanno così, e se non lo fai tu magari qualcun altro lo farà. Io voglio contribuire…”

 

Rientrati in Europa per stare più vicino alla famiglia, Muratore e moglie hanno avuto due bimbi, nati a Delft. “Vorrei che fossero felici e che imparassero una lezione che ho capito sulla mia pelle. Ci vogliono sacrifici a breve termine, per essere felici a lungo termine. Se rinunci a qualche cosa ora in nome di un obiettivo futuro, poi tutto ti tornerà.  A volte devi fare scelte difficili nell’immediato. Studiare, partire, andare all’estero, rinunciare ad acquistare una macchina, uscire dalla comfort zone, esporti alle opportunità. Che però ti porteranno ad avere una vita più piena. Oggi ho un lavoro che mi piace, una famiglia che amo, Mia moglie è una forza della natura. E a volte a chi mi chiede “come ce l’hai fatta?“, vorrei rispondere: per farcela, devi sposare Claudia. Mi ha sempre sostenuto, lavora tantissimo alla sua società, è una mamma fantastica. Abbiamo girato il mondo, fatto sacrifici, rinunce, fatiche. Mi auguro che i miei figli imparino questo. Vorrei che facessero quello che vogliono, ma a un livello intellettualmente alto e che ne siamo appassionati. Non sogno per loro un lavoro, fatto tanto per fare, dalle 9 alle 5″.

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Tornerete in Italia?

“L’Italia è il Paese più bello del mondo. Sono arrivato qui grazie alla formazione straordinaria che ho acquisito nel nostro Paese. Ho pagato tasse universitarie accessibili a tutti. In America ho trovato studenti che hanno debiti da 200mila dollari per pagarsi le università. Staremo in Olanda per un po’ di anni, ma poi torneremo”.



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Written by bourbiza mohamed

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