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Federico D’Angelo, la sua vacanza è il volontariato in Tanzania per insegnare inglese e matematica


Il volontario in Tanzania

Due mesi in Africa per superare i propri limiti e dare una mano. Una forma di volontariato che va oltre ideologie o vocazioni e ha uno scopo pratico, potendo unire il desiderio di aiutare popolazioni in difficoltà con l’occasione di vivere un’esperienza formativa. Il giovane parmense Federico D’Angelo è recentemente tornato dopo un periodo vissuto a Arusha, una città nel nord della Tanzania. Studente universitario con le idee chiare, appassionato di calcio, ha fatto una scelta magari insolita ma che oggi consiglia a tanti coetanei.


Cosa l’ha spinta a compiere questa decisione?
«Alle superiori ho frequentato il Liceo classico europeo e sono stato subito affascinato dall’idea di una carriera internazionale. In seguito mi sono laureato in Food System, un corso di laurea del dipartimento di Economia, e vorrei poter coniugare questi due aspetti. Magari lavorando per un’organizzazione come la FAO o il World Food Programme. Dopo il Covid a maggior ragione sentivo il bisogno di uscire dalla mia comfort zone e la necessità di farlo prima del master e del lavoro che mi lasceranno meno tempo disponibile».

Come è arrivato a scegliere la Tanzania?
«Ho iniziato a cercare su Workaway, un sito dedicato che propone migliaia di esperienze di volontariato nel mondo. Volevo qualcosa che mi formasse sul piano umano ma anche accademico in chiave di ricerca e sviluppo alimentare, puntando a una realtà che offrisse attività eterogenee. Ho trovato la soluzione perfetta a Arusha con il progetto Satino: alla mattina insegnavo inglese e matematica a scuola, al pomeriggio visitavo la città e poi allenavo una squadra di calcio femminile. Ogni tanto aiutavo anche a costruire una scuola».

Che realtà ha incontrato?
«Sicuramente povera visto che Covid e guerra hanno cancellato la fase di sviluppo che era iniziata nel Paese. Un alto tasso di disoccupazione ma anche un approccio diverso alla vita: là vedono sempre il bicchiere mezzo pieno. I bambini con cui lavoravo poi sono la parte più genuina della società, basta poco per renderli felici. Sono orgogliosi di andare a scuola. Per loro questo periodo di festività è veramente un momento triste perché la scuola è chiusa».

L’integrazione è stata difficile?
«Assolutamente no: nessuno shock culturale. Ho incontrato solo persone accoglienti, pronte a farti sentire bene. Ho vissuto a 360 gradi come loro, non come un turista, ho affrontato le loro stesse difficoltà dalla mancanza di acqua ai momenti senza elettricità. Ho cercato di assorbire la cultura africana e di portarla a casa con me, come se fosse un’enorme valigia extra. Tantissimi stimoli che fanno riflettere».

Al suo ritorno ha avviato anche una raccolta fondi legata al calcio.
«Con piccole donazioni abbiamo garantito già due o tre anni di vita alla Academy locale: palloni, scarpe, iscrizione al campionato e un fondo di riserva a cui attingere in futuro. Ho sempre amato il calcio e ho avuto la riprova che è una lingua universale per le emozioni. Alcune bambine della squadra non frequentavano la scuola e non sapevano l’inglese ma in campo ci capivamo perfettamente».

Quale messaggio si porta dietro da questa esperienza?
«Senza scadere nella retorica, direi che non bisogna mai avere paura di osare. Tutti mi dicevano di restare in Europa come prima esperienza, ma se senti di desiderare qualcosa allora non sarà mai troppo impegnativa. Non poniamo dei limiti a noi stessi».

Pensa di tornare in Tanzania?
«Sono stato benissimo ma ora sto programmando una nuova esperienza in Sudamerica, magari per febbraio-marzo. Sempre un periodo di volontariato legato prettamente a progetti alimentari».

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20 gennaio 2023 (modifica il 20 gennaio 2023 | 19:23)

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Written by bourbiza mohamed

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