Degli abbonamenti a Facebook e Instagram, o meglio dell’accesso alle loro versioni a pagamento che Meta starebbe per lanciare (riservate ai soli utenti europei), si è discusso molto nei giorni scorsi. A chi non vorrà che i propri dati di navigazione e di interazione sulla piattaforma (e non solo) vengano adoperati per veicolare pubblicità mirate e profilate, insomma su misura, non rimarrà che cancellare i propri account o pagare. Serviranno 10 euro per account da desktop o 13 da smartphone (a causa delle commissioni dell’App Store o del Play Store) con 6 euro per ogni profilo aggiuntivo collegato al primo. Cifre importanti, paragonabili se non superiori a quelle di piattaforme di streaming audio o video che offrono cataloghi sterminati e un intrattenimento senza paragoni. In questo caso, si pagherebbe per sottrarsi alla pubblicità mirata, nulla di più.
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Il pericoloso modello “pay for your rights”
Molto meno, invece, si è parlato dell’aspetto più tecnico. Cioè per capire in virtù di quale appiglio legale Meta possa pensare di proporre un modello che Noyb, lo European Centre for Digital Rights – un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Vienna – definisce con una certa efficacia “pay for your rights”. Cioè “paga per vedere garantiti i tuoi diritti” di cittadino e utente in merito all’impiego dei tuoi dati. Come avevamo spiegato, il colosso californiano che controlla Facebook, Instagram e Whatsapp ha studiato questa strategia per aggirare le nuove norme europee a protezione della privacy. Lo scorso dicembre, infatti, l’Unione Europea ha ritenuto inadeguate le modalità con cui Meta richiede ai suoi utenti il permesso di mostrare annunci pubblicitari personalizzati in base alla loro attività online. Accettare semplicemente i termini di servizio, in sostanza, non basta più.
L’uso dei dati personali illegale dal 2018: la conferma della Corte di giustizia europea
Una mossa, quella dei social a pagamento, che fa seguito al contenzioso avviato proprio da Noyb e in cui lo European Data Protection Board – l’organismo europeo che controlla l’applicazione del Gdpr, il Regolamento generale sulla protezione dei dati – ha dichiarato illegale il precedente “bypass del consenso” di Meta. Cioè il fatto di procedere con i semplici termini di servizio. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha successivamente confermato la posizione dell’Edpb nella causa C-252/21 Bundeskartellamt che contrapponeva proprio Meta e altre società all’agenzia tedesca per la concorrenza. La sentenza è arrivata lo scorso 4 luglio. Ciò significa che l’uso dei dati personali da parte di Meta a fini pubblicitari e di targetizzazione è stato sostanzialmente ritenuto illegale nell’Unione Europea almeno tra il 2018 e il 2023.
“I diritti fondamentali non possono essere in vendita. Pagheremo anche il diritto di voto o il diritto alla libertà di parola? – ha commentato Max Schrems, 36enne attivista e avvocato austriaco noto proprio per le sue battaglie nei confronti di Facebook e fondatore del Noyb – ciò significherebbe che solo i ricchi possono godere di questi diritti, in un momento in cui molte persone faticano ad arrivare a fine mese. Introdurre questa idea nell’ambito del diritto alla protezione dei dati è un cambiamento importante. Ci opporremo in tutti i tribunali”.
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Le sei parole su cui fa leva Meta per le versioni “premium”
C’è un punto preciso nel pronunciamento di principio affermato dalla Corte di giustizia europea che consente a Meta di procedere in questa direzione. Si tratta, secondo l’organizzazione, di sei parole fra le 18.548 della sentenza citata poco sopra che ha appunto ritenuto illegale l’approccio di Meta al Gdpr dal 2018. “Sebbene la sentenza abbia costantemente stabilito che tutti gli attuali approcci di Meta per avere una ‘base giuridica’ per il trattamento ai sensi dell’articolo 6 del Gdpr sono illegali – si legge in una nota Noyb – al paragrafo 150 è stata inserita una piccola frase che afferma che deve esistere un’alternativa agli annunci ‘se necessario, dietro pagamento di un compenso adeguato’”. Quello è il grimaldello sulla base del quale, per la versione europea delle sue piattaforme, il gruppo di Mark Zuckerberg starebbe preparando le versioni “premium”, chiamiamole così. Anche se forse sarebbe meglio chiamarle “light”, cioè alleggerite dalla pubblicità targettizzata, ovviamente dietro lauto pagamento.
Noyb definisce senza mezzi termini quell’abbonamento una “tassa da 160 euro all’anno”. In effetti, non si tratta di una cifra da pagare per (eventualmente, se lo si desidera) accedere a un qualche servizio o contenuto aggiuntivo ma di una cifra da corrispondere qualora gli utenti non vogliano acconsentire allo sfruttamento dei loro dati personali. Sostanzialmente, un “opt out” a caro prezzo. Queste sei parole sono inoltre incluse in un cosiddetto “obiter dictum”, cioè una considerazione aggiuntiva da parte di un tribunale – seguente al dispositivo vero e proprio – che non è direttamente correlata al caso e di solito non è vincolante. In generale, solo le “conclusioni” delle sentenze della Cgue sono vincolanti. Non è quindi chiaro come si comporterà la Corte quando avrà di nuovo il caso in analisi.
“La Cgue ha detto che l’alternativa agli annunci deve essere ‘necessaria’ e il compenso deve essere ‘adeguato’ – conclude Schrems – non credo che 160 euro all’anno siano ciò che avevano in mente. Queste sei parole sono anche un “obiter dictum”, un elemento non vincolante che è andato oltre il caso centrale sottoposto alla Corte. Per Meta questa non è la giurisprudenza più stabile e ci batteremo chiaramente contro questo approccio”.