di Nicolò Delvecchio
Il docufilm «Peso morto» di Francesco Del Grosso racconta la storia di Angelo Massaro, finito in carcere a 29 anni per un omicidio mai commesso: ne è uscito solo 2017 dopo la revisione del processo
«Un’opera d’arte, ma un pugno nello stomaco. Il regista Francesco Del Grosso è riuscito a creare un capolavoro da una storia drammatica. E non perché sia la mia, ma perché parla di tutte le vittime del sistema giudiziario». Angelo Massaro è uscito dal carcere nel 2017, a 21 anni da quando ci era entrato da innocente. Lo avevano condannato per l’omicidio di Lorenzo Fersurella, il suo migliore amico, e solo una tardiva revisione del processo gli ha consentito di uscirne da innocente. Il calvario di Massaro, iniziato a Fragagnano (Taranto) quando aveva appena 29 anni, è raccontato nel docufilm «Peso morto» e verrà proiettato oggi al Multicinema Galleria di Bari (ore 17.30) nell’ambito del Sudestival. Prodotto da Black Rock Film in collaborazione con l’associazione Errorigiudiziari.com, scritto dai giornalisti e fondatori della no-profit Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, in pochi mesi ha già vinto diversi premi e ha all’attivo anche una proiezione negli Stati Uniti.
Massaro, come mai ha scelto di raccontarsi in un film?
«Tutto è iniziato nel 2017, quando incontrai Lattanzi e Maimone poco dopo essere uscito dal carcere. Rimasero impressionati dalla mia storia al punto da propormi il docufilm, e ho accettato».
Chi andrà a vederlo cosa deve aspettarsi?
«Di uscirne con un pugno nello stomaco. L’obiettivo non è né attaccare la magistratura né trasmettere pietà, ma solo sensibilizzare l’opinione pubblica su un tema di cui si parla poco. I giudici, nella stragrande maggioranza dei casi, lavorano bene e trattano gli imputati come persone, non come numeri. I pochissimi che non lo fanno, invece, possono distruggere intere famiglie. Sto ancora aspettando le scuse di chi mi ha rubato 21 anni di vita».
Come è stato rivivere quel periodo?
«Una sofferenza, necessaria però per dar voce ai tanti che vivono situazioni simili. Dietro la mia storia ce ne sono tante altre che nessuno conosce. E io continuo a vivere sulla mia pelle il pregiudizio dei miei compaesani».
All’epoca aveva una moglie di 22 anni, Patrizia, un bimbo di due e un altro di appena un mese.
«Loro hanno sofferto tanto quanto me. I miei figli, Antonio e Raffaele, hanno frequentato le scuole in un paese diverso da Fragagnano perché venivano additati come “i figli dell’assassino”.
Che risposta avete avuto dalla critica?
«Ottima. In poco abbiamo già ricevuto il premio della Fondazione Libero Bizzarri, due primi posti al Parma Film Festival, una menzione speciale al film festival Extra Doc di Roma e riconoscimenti per la miglior regia al Salento Finibus Terrae di San Severo e all’Asti International Film Festival».
Chi l’ha aiutata in questi 21 anni?
«Innanzitutto la mia famiglia, poi i miei avvocati Salvatore Maggio e Salvatore Staiano, che hanno fatto un miracolo. E Valentino e Benedetto di “Errori Giudiziari”. Mi hanno preso che ero un disadattato sociale e aiutandomi a ricostruire la mia vita. Quando sono uscito dal carcere non sapevo fare niente, non sapevo nemmeno cosa fosse l’euro».
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